“Complimenti, you bitch. I am wracked by the seven jealousies.”
T.S. Eliot all’amico Ezra Pound dopo aver visto la revisione del suo The Waste Land
Ho cominciato a editare (male e scompostamente, credo) otto anni fa, ma all’epoca non era la mia professione. Ho cominciato che sapevo ben poco, e a guidarmi solo l’istinto. Qualcosa che ancora oggi accomuna la mia visione dell’editing a quella dell’infamous Gordon Lish — per certi aspetti e non tutti, almeno (qualcuno penserà “per fortuna”).
Da tre anni, invece, rifletto sulla teoria dell’editing, all’interno di una dimensione squisitamente “meta”. Che cosa si fa quando si edita? L’editor ha sempre ragione, come ha scritto Stephen King? È necessario? E in virtù di cosa? A chi deve la propria fedeltà, quando corregge: al lettore, all’autore, alla casa editrice? Al testo, se fosse possibile?
E chi stabilisce la bontà delle correzioni, se persino l’autore può sbagliarsi? Se non esistono regole e tecniche che valgano a priori; se la grammatica non è più così salda (ma solo per i migliori); e se la letteratura è, invece, una successione di regole e tecniche da ignorare, manipolare e distruggere, per poi iniziare daccapo quando l’avanguardia è diventata maniera.
Se l’editing è sia un’istanza di controllo sia un’istanza di libertà, come decidere e operare nel concreto? Non si decide e non si opera, e si lascia lo scrittore da solo? Se lo intendiamo come un genio romantico ispirato da Dio, l’autore per eccellenza, potrebbe funzionare, altrimenti ne dubito. Ma anche la nostra concezione di autore è cambiata nel tempo.
Come Calvino, “son tutte cose che ho bisogno di masticarmi dentro ancora per chi sa per quanto”. Nel frattempo, però, ho avuto l’opportunità di fare il punto della situazione e un mercoledì di maggio ho esposto le mie parzialissime conclusioni a una classe di studenti di lettere all’Università degli Studi di Padova.
Non parlavo in pubblico dal 2013, in occasione di un workshop a Lucca Comics and Games, e non sapevo cosa aspettarmi. Avrei ricordato tutto quello che avevo preparato (e non era poco)? L’avrei detto bene? Ci sarebbero state persone ad ascoltarmi? E soprattutto: sarebbero rimaste, si sarebbero annoiate a morte?
La parte più difficile del seminario è stata la preparazione. Ho dedicato due mesi alla lettura e rilettura di saggi che mi sembravano rilevanti, una settimana alla definizione della struttura dell’argomento — il cuore del progetto —, due alla creazione della presentazione su Keynote, e poi un giorno di meritato riposo. Nessuna prova generale, nessun discorso preparato. Not my cup of tea.
A differenza di altre occasioni, stavolta non dovevo raccontare la mia esperienza di editor: davanti a me avevo una classe universitaria di lettere e non di editoria, come al master Mondadori o alla Scuola Holden. Avrei discusso, analizzato, decostruito alcuni assunti teorici sull’editing, ma prima dovevo spiegare cosa fosse, questo “editing”, cosa facesse l’editor, oggi ma anche ieri, per capire la genealogia di una figura editoriale che no, non c’è sempre stata e non ha sempre svolto le stesse mansioni e nello stesso modo. Un intrecciarsi, quindi, di storia, storia dell’editoria, storia della letteratura, e poi teoria della letteratura, critica letteraria e letteratura stessa, dato che la materia “editing” ancora non esiste. (Però mi piacerebbe insegnarla, se e quando ci sarà.)
La lezione è andata bene. Io avevo caldo, fame, mal di testa, mal di denti (e il viso un po’ gonfio); ci sono stati problemi tecnici con la connessione del proiettore, prontamente risolti con un furto di computer, ma è andata bene.
Ho parlato per un’ora e mezza, in un’aula da cento persone quasi piena e quasi buia. Non sono arrivata alla fine della presentazione — mi avrebbero condannata per sequestro di persona, temo —, ma l’avevo previsto: troppe cose da dire, per una volta. Tuttavia, nella penombra, ho visto persone (non tutti erano giovani) interessate e che prendevano appunti, che si sono persino fermate a farmi domande (sì, l’aspirante poeta c’era, c’è ogni volta), e spero di aver destato in loro un po’ di riflessioni e un po’ d’interesse per un argomento che di solito non entra nelle aule universitarie.
L’editing è dappertutto, è vero, ma diamo sempre per scontato che ciò che leggiamo sia l’unica versione, e la migliore, ma ovviamente, lo sappiamo, non è così. Il testo ha una storia, e non è quasi mai una storia semplice.
Dear Alessandra,
un grande regalo, questa mattina: le tue mail. Molto belle, molto gradite,
molto consonanti. Ti dico perché: Zazie Smith, Perché scrivere, l’ho dato ai
partecipanti al mio Laboratorio di scrittura creativa, il secondo, che tengo a Novi Ligure, mia città natale; secondo motivo: Barthes che si contende il primo
posto con Borges (magari ti dirò del mio viaggio a Buenos Aires) e proprio in
questi giorni, sto cercando di scrivere un libello su Eros (dopo
Seduco… dunque sono, Franco Angeli, 2014) e sudiando On échoue toujour à parler de ce qu’on aime, e le due possibili, quasi antitetiche, interpretazioni.
E molti altri richiami di egregia risonanza.
Quello che mi manca, tralasciando quanto irrecuperabile, è il linguaggio, il tuo linguaggio (la spiegazione più probabile è che ho più del doppio dei tuoi anni), e allora sono da anni in una crisi semantica. Come un adolescente, sono un in-fante del nuovo linguaggio.
Scrivo, e a volte sgraffigno qualcosa nei concorsi letterari: una raccolta di racconti ha fatto terza a un concorso e potrebbe essere pubblicato, ma ho capito, per due romanzi pubblicati, che senza un sostegno promozionale solido e seduttivo, i libri li regalo a tout le monde. Che fare?
E poi , già detto, un libello su Eros: che, e questo sprona il mio disegno, mi erotizza mentre lo scrivo.
Per il momento, tanto per ringraziarti e dirti qualcosa di me, e perché.
Stai bene (molto), Lorenzo
Dear Alessandra,
un grande regalo, questa mattina: le tue mail. Molto belle, gradite,
consonanti. Ti dico perché consonanti: Zazie Smith, Perché scrivere, l’ho dato ai
partecipanti al mio Laboratorio di scrittura creativa, che
tengo a Novi Ligure, mia città natale; Barthes si contende il primo
posto con Borges (magari ti dirò del mio viaggio a Buenos Aires) e in
questi giorni, sto cercando di scrivere un libello su Eros (dopo
Seduco… dunque sono, Franco Angeli, 2014, che si apriva con Di cosa parliamo quando parliamo d’amore) . Sono interessato a parlarti di una raccolta di racconti, dal titolo – terza consonanza – Ci si arena sempre nel parlare di ciò che si ama. Ho fatto 3° a un concorso, e mi pubblicherebbero, ma dopo l’esperienza di due romanzi, ho capito che è fondamentale la promozione.
Due cose di me: molta difficoltà a impadronirmi dei nuovi linguaggi (a occhio, ho più del doppio dei tuoi anni) e quindi mi muovo con difficoltà. Se mi cerchi, mi trovi su facebook, sito.
Questo, per dirti la mia situazione letteraria.
Ancora grazie per le tue mail.
Lorenzo