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Alessandra Zengo

Editor e digital strategist freelance

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Dunkirk, l’Iliade e la guerra come narrazione

5 Ottobre 2017 pubblicato da Alessandra Zengo

“Andiamo, amico, muori anche tu! Perché ti lamenti tanto?
È morto anche Patroclo, che valeva tanto più di te.
E io stesso, non vedi come sono bello e grande? […] Sarà all’alba, o alla sera, o al mezzo il giorno
quando anche a me con le armi si strapperà la vita…”
Achille a Licaone, Iliade, XXI, 106—112, Omero

Nel 2003 Susan Sontag pubblica l’ultimo libro della sua vita: Regarding the Pain of Others*, un saggio sulla fotografia di guerra, e più in generale sull’utilizzo e sul significato delle immagini.

“But is it true that these photographs, documenting the slaughter of noncombatants rather than the clash of armies, could only stimulate the repudiation of war? […] In fact, there are many uses of the innumerable opportunities a modern life supplies for regarding—at a distance, through the medium of photography—other people’s pain. Photographs of an atrocity may give rise to opposing responses. A call for peace. A cry for revenge. Or simply the bemused awareness, continually restocked by photographic information, that terrible things happen.”

L’ho letto da pochissimo, e sono rimasta sorpresa nel ritrovare volti familiari del discorso letterario sulla guerra all’inizio del Novecento. Sontag cita, oltre allo scambio epistolare tra Einstein e Freud, Perché la guerra? (1933), due autrici: Virginia Woolf e Simone Weil.

Hannah Arendt, invece, che ha scritto Sulla violenza nel 1970, concentrandosi sul rapporto tra violenza e potere, e sul cambiamento che l’innovazione tecnica ha portato nel primo e nel secondo conflitto mondiale, viene nominata solo marginalmente.

Quando ho visto Dunkirk al cinema (due volte, lo confesso), qualche settimana fa, ho pensato proprio a questa triade femminile. Un po’ perché, come dice Virginia Woolf in Le tre ghinee, “war is a man’s game—that the killing machine has a gender, and it is male”; un po’ perché, nel film di Christopher Nolan, è assente la dinamica tra politica e guerra, e quindi tra potere e violenza, di cui parla Arendt; un po’ perché, alla fine, ciò viene rappresentato sono gli effetti della guerra sulle persone (e non una battaglia specifica), argomento molto caro a Weil, che ne parla nel saggio breve L’Iliade o il poema della forza all’interno del più lungo La rivoluzione greca.

Il vero oggetto della guerra, secondo la filosofa francese, è l’anima dei combattenti, e le trasformazioni che subisce a causa del dominio della forza. Una forza che pietrifica, da ambo le parti, chi la usa e chi la patisce: nessun uomo è collocato al di sopra o al di sotto della condizione comune, vincitori e vinti sono ugualmente prossimi, parimenti innocenti, non ammirati, disprezzati o odiati.

Tutto ciò che è distrutto è rimpianto, e tutto ciò che sfugge alla subordinazione della forza è amato, ma amato dolorosamente proprio per la consapevolezza della sua possibile distruzione. È la straordinaria equità dell’Iliade, lo straordinario pregio di Dunkirk.

Dunkirk, infatti, è un ritratto cinematografico umano, all’interno della disumanità della guerra: c’è l’uomo di fronte alla possibilità ultima, quella di morire, e ci sono le scelte che compie per salvare qualcun altro oppure se stesso.

La questione morale è interdetta – non c’è condanna dell’egoismo, del tradimento, della paura – e al suo posto c’è il silenzio della narrazione visiva, della tensione che sempre cresce, senza arrivare mai da nessuna parte, per poi ricominciare, della storia “fisica” di ragazzi che, intrappolati sulla spiaggia, reagiscono alle circostanze e cercano di sopravvivere. Pura meccanica della sopravvivenza, usando le parole di Nolan.

Dunkirk non è storia e politica, sentimentalismo o retorica dell’eroismo, ma è esperienza, suspense, emozione, lotta contro il tempo che, questa volta sì, non si ferma e divora i suoi figli. È umanità attraversata da fragilità, conflitto e costante pensiero di morte.

“Per gli altri la morte è un limite imposto in anticipo all’avvenire; per essi è l’avvenire stesso, l’avvenire assegnato loro dalla professione. Che degli uomini abbiano come avvenire la morte è contro natura. Dal momento che la pratica della guerra ha reso sensibile la possibilità di morte che ogni minuto racchiude, il pensiero diventa incapace di passare da un giorno all’altro senza traversare l’immagine della morte. Lo spirito è allora in uno stato di tensione che può sopportare solo per poco tempo; ma ogni nuova alba porta la stessa necessità. […] L’anima patisce violenza tutti i giorni. […] Così la guerra cancella ogni idea di scopo, persino l’idea degli scopi della guerra.”
Simone Weil, La rivoluzione greca

Christopher Nolan opera un magistrale lavoro di sottrazione: visiva, nella mancanza di sangue, di crudeltà gratuite (e qui la riflessione di Susan Sontag è più che pertinente) e del nemico; uditiva, nella fusione tra suoni diegetici ed extradiegetici (angoscianti, grazie Hans Zimmer) e nella preziosa economia dei dialoghi; narrativa, data l’assenza di back stories per i personaggi.

La parte migliore è proprio la struttura dell’opera, concepita “matematicamente” e “geometricamente” come Memento (2002): tre ambienti – spiaggia, mare, cielo – e tre linee temporali – una settimana, un giorno, un’ora – che s’intersecano e si completano, fino a convergere nel finale.

Lo spostamento tra prima e dopo è costante, e lo stesso evento può essere “visto” in più momenti e da diverse prospettive, ma lo spettatore esperisce le tre diverse storyline come un presente continuo e simultaneo. È un giochetto compositivo che funziona alla perfezione per raccontare un evento storico grandissimo e complesso, senza doversi rivolgere a scene esterne, fuori dall’esperienza umana di Dunkirk. Il filtro della storia è quello soggettivo di chi ha vissuto l’operazione Dynamo. Sulla spiaggia, sul mare, nel cielo.

Se non l’avessi ancora capito, dopo quasi mille parole, Dunkirk mi è piaciuto tantissimo e rientra a tutti gli effetti tra i miei preferiti di Nolan (Memento, The Prestige, Il cavaliere oscuro, Interstellar). Se hai già visto il film una volta, rivedilo: è così che anch’io ho apprezzato meglio il puzzle narrativo costruito dalle tre linee temporali, i rimandi, le simmetrie, il cross-cutting.

Nel frattempo, in attesa di recuperare Sontag, Woolf, Arendt e Weil, puoi leggere l’articolo pubblicato da Doppiozero, “Dunkirk, il tempo e la menzogna” di Simone Spoladori. Bello assai.

* Regarding the Pain of Others di Susan Sontag è stato tradotto in italiano da Mondadori col titolo Davanti al dolore degli altri, nella collana Strade Blu e poi Oscar Mondadori, ma al momento è fuori catalogo.

Categorie: Elementary Tag: Christopher Nolan, Cinema, Simone Weil, Susan Sontag, Virginia Woolf

Alessandra Zengo

Parafrasando liberamente Paul Valéry, “spesso penso, a volte sono”: nello specifico editor, digital strategist e consulente. Dal 2009 vivo una relazione impegnativa col mondo editoriale, e ancora non ci siamo lasciati. Amo i libri, i cani, il sushi, le cose fatte bene, i quaderni, gli abbracci, i congiuntivi e altre sconcezze. Considero Pippi Calzelunghe la mia style-guru, ma sono più alta.

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