“We are all apprentices in a craft where no one ever becomes a master.”
Ernest Hemingway, in New York Journal-American, 1961
1. Che percorso hai intrapreso per diventare editor? Hai fatto tirocini? Stage?
Da cosa nasce cosa, come direbbe Bruno Munari, e alla fine di un lungo processo di incastri e corrispondenze, senza averlo progettato, mi sono trovata a svolgere le stesse “mansioni redazionali” di un editor. A correggere le parole degli altri, insomma. Non solo le storie (troppo astratto) o i libri (troppo restrittivo), ma le parole.
La palestra più importante è stata il blog letterario: mi sono circondata spesso di fuoriclasse, da cui ho “rubato” tutta l’esperienza che potevo. È lì che ho imparato a scrivere. Qualche anno e quattro migliaia di articoli corretti dopo, ho cominciato a lavorare come lettrice esterna per un gruppo editoriale e nel 2012 ho “inventato” — quando ancora le riviste letterarie non andavano di moda, soprattutto online — Speechless. Anche lì, un sacco di gente figa, ma l’esperienza è durata troppo poco. Grazie alla rivista, però, ho avuto l’occasione di editare non solo articoli, ma racconti e romanzi (l’avevo già fatto, certo, ma non con la stessa precisione e con la stessa urgenza che si sente in previsione di una pubblicazione). L’ultimo è stato Vietato leggere all’inferno di Roberto Gerilli: leggetelo, è gratis (www.vietatoleggere.it).
Nel 2015, poi, ho deciso di fare il grande passo e “sposare la professione”. Da allora lavoro a tempo pieno come editor (per autori, soprattutto, ma anche case editrici, come Feltrinelli) e digital strategist freelance. A volte con la collaborazione di Chiara Chinellato, che mi aiuta a costruire fantastici progetti di branding per scrittori e creativi.
Il mio percorso da editor è atipico, dunque, ma è stato così per tutti gli editor di mia conoscenza. Non ho scelto una facoltà con indirizzo / specializzazione editoriale, non ho pagato un costosissimo master, non ho frequentato corsi o workshop della durata di un week-end — non l’ho fatto perché credevo, e credo ancora oggi, che (almeno per adesso) non siano scelte adatte a chi voglia imparare a editare (non a fare il redattore, ma a editare). L’editing si impara a stretto contatto col testo, lavorando con storie e autori anche diversissimi, oppure se c’è qualcuno abbastanza paziente come mentore e spirito guida. O, ancora, scegliendo un critique partner con cui confrontarsi quotidianamente nella pratica dell’editing.
Io ho avuto l’occasione di entrare trasversalmente nel mondo dell’editoria e l’ho colta. E quando ho capito di saper editare abbastanza bene da essere pagata altrettanto bene, mi sono lanciata. Al momento, non ho ancora assaggiato il morso del suolo dopo una rovinosa caduta.
2. Non ci sono corsi qualificati per svolgere il lavoro di editor e tutti dicono che l’editing s’impara facendolo, quindi da dove si comincia? Come posso fare le prime esperienze sul campo?
Prendi un amico scrittore, leggi un suo romanzo e cerca di capire cosa non funziona. Se non ci riesci, torna al Via e ricomincia leggendo saggi sulla scrittura — dato che sull’editing, per la pratica, almeno, non ne esistono —, manuali e manualetti di teoria della letteratura (Il demone della teoria, per esempio), analisi letterarie di grandi classici, come le Lezioni di letteratura di Nabokov, libri sulla storia dell’editoria e sulle figure di editor celebri (Max Perkins. L’editor dei geni, pubblicato da Elliot è un buon punto di partenza). La bibliografia è sterminata, gli argomenti pure.
Io, per dire, adoro leggere i saggi che gli autori dedicano alla scrittura (minimum fax ha una collana molto bella che si chiama Filigrana). Dentro ci si trovano un sacco di cose, se si ha la pazienza di cercarle, ma il loro maggior pregio è che ci permettono di comprendere più da vicino, e intimamente, la poetica di un romanziere “modello”. Si sbircia nel dietro le quinte della costruzione di un romanzo e nella testa di chi lo ha concepito, per capire la sua idea “regolativa” di letteratura, che non è mai, mai sempre la stessa. Quello che non dicono — o che io ancora non ho letto — è che persino l’editor possiede questo speciale tipo di idea. Un’idea che guida il lavoro di editing e che è abbastanza flessibile e polimorfa da sapersi adattare a manoscritti, generi, autori, situazioni. E forse è proprio quando si riesce a identificare quest’idea, a sentire che c’è e che “plasma” il nostro percorso, che si diventa scrittori. O editor.
Come ha (ben) detto Federica Manzon in Fare libri (Guanda): “L’editor e lo scrittore hanno molte cose in comune: prima di tutto sono due lavori che ti si modellano addosso, si adattano al tuo carattere e alle tue idiosincrasie, agli innamoramenti insensati. Ma richiedono anche continui sforzi di adattamento, di comprensione e mutamento, come capita con le migliori storie d’amore”.
Il mio consiglio per cominciare, dunque, è semplice: leggi molto e qualsiasi cosa, studia altrettanto e con attenzione, edita nel tempo che rimane, avendo cura di scegliere sempre testi diversi (articoli, saggi, romanzi, presentazioni, pagine web, ecc.). In alternativa, o contemporaneamente, esistono le letture professionali per gli editori (anche piccoli) e il beta reading per gli autori.
3. Quando pubblicare con una piccola / media casa editrice può rappresentare un valore aggiunto significativo, per un esordiente, rispetto a un’auto-pubblicazione?
Chi non può permettersi la “spesa” di un’auto-pubblicazione — almeno se desidera uscire con un buon prodotto, editato, copertina decorosa, un po’ di budget per l’advertising ecc. — ha un’unica strada davanti: quella della piccola/media editoria.
Chi ha la possibilità di scegliere, invece, deve valutare bene l’offerta dell’editore sul piatto. Se non c’è l’anticipo, come sono le royalties? Se le royalties per la prima edizione (non economica) sono meno dell’8%, forse è meglio chiedersi se conviene. Se non c’è una distribuzione nazionale (comprensibile), ma nemmeno una seria promozione online, forse è meglio discuterne. Se l’editore non si occupa dell’editing, e al massimo si può aspirare a una veloce correzione di bozze (molto spesso i piccoli editori non hanno a disposizione editor professionisti), forse è meglio cercare altrove.
L’altrove si traduce in realtà ugualmente piccole e modeste — poche ma esistenti — che però selezionano i testi da pubblicare (no, non è così scontato), non chiedono soldi agli autori, direttamente o meno (acquisto copie, pagamento dell’editing esterno su cui però prendono una percentuale non meglio dichiarata, ecc.) editano con scrupolo e più volte i manoscritti, hanno un graphic designer con almeno conoscenze di base di composizione, colori, ecc. (anche questo, non così scontato). Il discrimine vero e proprio, secondo me, soprattutto per un autore senza tanta esperienza pregressa è l’editing, che nel self-publishing è il servizio più costoso in assoluto. Se trovi una casa editrice con un editor eccellente, tienitela stretta. Imparerai un sacco e risparmierai un sacco di soldi.
4. Ho letto il tuo articolo indirizzato agli aspiranti editor e, tra le azioni che suggerisci d’intraprendere per costruire una certa esperienza, c’è anche quella del beta reader. Quello che ti chiedo è: è ancora fattibile? Le case editrici prendono ancora in considerazione candidature di questo tipo (anche a titolo gratuito, ovviamente)?
Il beta reader non è il lettore esterno delle case editrici. Il primo offre gratuitamente un giudizio all’autore che gli ha sottoposto un manoscritto prima della pubblicazione; il secondo viene pagato da una casa editrice per scrivere una scheda di lettura più o meno dettagliata di un testo inedito o già pubblicato all’estero (per esempio, durante le fiere di settore: Torino, Francoforte, Londra).
Cominciare come lettore esterno è un’ottima idea per muovere i primi passi in editoria, quando non si ha esperienza. Si è “costretti” a leggere un manoscritto con attenzione maggiore rispetto a una lettura normale, a rileggerlo più volte, a spiegare perché una storia funziona o perché no (e a volte la risposta non è scontata), quali sono i punti di forza e di debolezza. Bisogna aver letto molto, comunque, e poi avere familiarità col genere del romanzo e una certa conoscenza del mercato editoriale aiuta durante la stesura della scheda, dato che una parte è dedicata ai “selling points”, ovvero al potenziale commerciale.
C’è una controindicazione: i lettori esterni sono pagati pochissimo, quando sono pagati. Le tariffe salgono per lingue meno inflazionate come il tedesco e più ancora con norvegese, finlandese, ecc. Nell’ultimo caso, però, le letture disponibili non sono tante come quelle dall’inglese.
(Per approfondire, ho parlato del beta reader su Medium.)
5. Corsi per editor non esistono e secondo me neanche avrebbero troppo senso: è una formazione così complessa che un corso di tuttologia non basterebbe. Però, per esempio, dici che affiancare a una certa pratica un corso di correttore di bozze può essere utile?
Sono due lavori differenti — che riguardano “oggetti” differenti (una bozza di manoscritto l’uno, un testo già corretto e impaginato l’altro) — ma per certi versi credo siano complementari. Io affiancherei correzione e letture: la correzione insegna una “postura” e un’attenzione per il dettaglio molto simile a quella richiesta per un line / copy-editing; le letture, invece, spingono a lavorare sulla visione d’insieme della storia, sulla struttura narrativa e sulla sua esecuzione formale.
6. Quali sono le basi teoriche fondamentali da sapere per fare editoria?
“Fare editoria” è un po’ generico. In editoria lavorano anche grafici, marketer, addetti stampa, commerciali, avvocati, manager (ma non solo) e a ognuno sono richieste conoscenze e competenze diverse. Ahimè, non esiste (ancora) un libro da leggere che contenga tutto ciò che c’è da sapere per lavorare in editoria e avere successo, dove successo significa riuscire a mantenersi col proprio stipendio.
Nell’ipotesi che uno voglia diventare un redattore editoriale, il programma dettagliato del corso Oblique Studio di Roma e quello di Lindau offrono una buona approssimazione. A differenza di Oblique, però, consiglio all’aspirante redattore di impratichirsi anche con InDesign della Suite Adobe.
7. Com’è “fatto” un buon contratto editoriale per un esordiente?
Ha royalties dignitose, che vengono conteggiate in maniera scalare. Non meno dell’8% per una prima edizione, e a salire con la percentuale in base alle copie vendute (esempio: 7-8% per le prime 1000 copie, 9% da 1001 a 5000 e così via — calcoli che dipendono dall’editore e dalle tirature).
Non c’è opzione (meglio una prelazione sulle opere future, se l’editore insiste), ma se c’è — e l’editore non è la micro-stamperia sotto casa — deve essere pagata a parte e non può essere compresa nell’anticipo.
Ha le giuste percentuali per i diritti secondari / di adattamento, come la traduzione all’estero. Se propongono meno del 50% (ovvero 50% all’autore e 50% all’editore), meglio discuterne.
Non ha clausole oscure, come la possibilità per l’editore di rescindere dal contratto in qualunque momento, il vincolo per la ripubblicazione dell’opera dopo gli anni previsti o amenità del genere.
C’è moltissimo altro ancora, ma ci vorrebbe una giornata. Il mio consiglio è di rivolgersi sempre a un consulente, a un agente (se ce l’hai) o a un avvocato specializzato in diritto d’autore prima di firmare qualsiasi contratto di qualsiasi casa editrice, anche grande e rinomata (perché sì, tutte fanno il proprio interesse e non il vostro). In alternativa c’è Scrittori in Causa, che è un progetto gratuito: www.scrittorincausa.blogspot.it.
8. Sono uno scrittore in erba che per ora sta solo studiando tantissimo materiale e manuali, oltre che a libri di storia e saggi sull’argomento del mio libro. Ma quando tutta questa preparazione deve fermarsi, e buttarsi sullo scrivere la prima stesura?
Il dilemma è simile a quello dell’editor autodidatta, che si chiede quando potrà entrare nel mercato del lavoro da professionista abbastanza qualificato. Nessuno, però, ha l’autorità per liberare l’editor e lo scrittore da questo fardello.
Se voglio scrivere un romanzo storico ambientato nell’Inghilterra vittoriana (o nell’Antica Grecia) devo — e sottolineo l’obbligatorietà — possedere conoscenze estese sulla società, la storia, la politica, l’organizzazione domestica, la geografia storica che m’interessa (che sia Londra, o Birmingham, o altro), l’abbigliamento, gli usi e i costumi nelle loro declinazioni a seconda della classe sociale, provenienza, religione, ecc.
Quando sento di padroneggiare l’80% delle conoscenze che mi consentono di gestire la trama del mio romanzo senza grosse difficoltà, parto con la prima stesura. Nulla vieta allo scrittore, comunque, di abbozzare alcune scene prima, durante lo studio di argomenti specifici (la cerimonia del tè nel Giappone del 1500, la conformazione delle navi da guerra romane all’epoca di Cesare, ecc.).
Non è necessario smettere di “prepararsi”, comunque, quando si comincia a scrivere o a editare qualcosa. Non siamo a scuola, o all’università, dove c’è un tempo per studiare e un tempo per parlare / scrivere. Possiamo fare due cose alla volta: documentarci e scrivere. Editare e studiare.
9. Credi, come dice Stephen King, che la prima stesura debba durare al massimo tre mesi?
A volte impiego tre mesi per scrivere un articolo, non vedo perché la stesura di un romanzo non possa durare dieci anni. Stephen King parla della propria esperienza e della propria difficoltà a scrivere un romanzo “che si tiene” se impiega più di tre mesi per la prima bozza. Ma non è una regola aurea della narrativa. Quindi, se l’obiettivo è scrivere un ottimo libro, o almeno buono, non mi preoccuperei affatto del tempo, che è diverso per ciascuno. Se invece si scrive per cavalcare una moda (pubblicare un erotico a ridosso delle Sfumature, un instant book post-elezioni, ecc.), il fattore tempo è essenziale. Ora, nell’anno domini 2018, nessun editor accetterebbe la proposta per un paranormal romance young adult. E nemmeno una distopia commerciale à la Hunger Games o Divergent.
10. Sono alla prime esperienze di editing: meglio segnalare all’autore tutto ciò che si ritiene debba essere aggiustato, oppure c’è il rischio di sembrare… presuntuosi?
Primo assioma editoriale: gli autori sono creature sensibili che mal sopportano le ingerenze esterne, se non consapevolmente scelte (come nel caso degli editor freelance).
Il secondo assioma, però, afferma che — almeno in un mondo ideale — la stella polare dell’editor (cioè la sua priorità) è il testo, e solo in seconda battuta, e in quest’ordine, arrivano autore e casa editrice. Questo significa che sì, l’editor segnala tutto ciò che ritiene debba essere aggiustato in un manoscritto, pena l’esilio dal regno delle lettere, ma non è necessario che lo dica alla prima revisione. Prima i macro-problemi, a livello di contenuto, struttura e sviluppo personaggi, e poi a scendere, a livelli sempre più specializzati di “visione e dettaglio”, il resto.
Questo è il primo Ask The Editor, che ho organizzato qualche mese fa in occasione del mio compleanno. Che cos’è e come funziona un Ask? I lettori che mi seguono mi scrivono delle domande, sui social o per e-mail, a cui rispondo pubblicamente, con un articolo come questo, nella speranza che possa essere utile a chi ha gli stessi dubbi e perplessità sul mondo editoriale.
Secondo te studiare lettere moderne all’università può aiutare per diventare editor?
Per iniziare non saprei a chi rivolgermi ne a chi chiedere, sono proprio all’inizio e vorrei un tuo consiglio.
Ciao Chiara, sì, una laurea in lettere o in filosofia può certamente aiutare. Non è obbligatoria, ma se le materie e gli argomenti ti interessano e appassionano, go for it.
No, una laurea in Lettere non serve per diventare editor. Bisogna studiare altro, e lavorare sul campo, tanto tanto tanto. Ciao
Ciao, sto iniziando il mio percorso di editor freelance mi trovo di fronte alla redazione del mio primo contratto con l’autore. Mi aiuteresti con qualche consiglio sui dettagli del contratto? Esiste un modello?
Grazie!!
Ciao Clelia, meglio se mi scrivi un’e-mail a hello@alessandrazengo.com 🙂