“Fear no more the heat o’ the sun;
Nor the furious winter’s rages,
Thou thy worldly task hast done,
Home art gone, and ta’en thy wages.”
William Shakespeare, Cymbeline
Non tutte le opere che leggiamo sono concluse, finite. Alcune, come Il processo o Il castello, non dovevano proprio vedere la luce, se non quella delle fiamme di un caminetto. Eppure ci sono, e le apprezziamo nonostante l’incompiutezza.
Anche le Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein sono uscite postume, nel 1953, e in una versione non approvata dall’autore, che aveva ultimato e pensato di pubblicare soltanto la prima parte. La prefazione, datata gennaio 1945, è l’ammissione di un (duplice) fallimento.
“Dopo diversi infelici tentativi di riunire in un tutto così fatto i risultati a cui ero pervenuto, mi accorsi che la cosa non mi sarebbe mai riuscita, e che il meglio che potessi scrivere sarebbe sempre rimasto soltanto allo stato di osservazioni filosofiche; che non appena tentavo di costringere i miei pensieri in una direzione facendo violenza alla loro naturale inclinazione, subito questi si deformavano.”
Da una parte, Wittgenstein non è riuscito a scegliere la forma adatta alle sue osservazioni filosofiche — che spaziano dalla critica dell’idea di un linguaggio privato all’analisi logica, dalla natura della coscienza alla visione aspettuale — e lo testimoniano le molteplici stesure, prima, e le continue revisioni, poi. Il libro, dice, è soltanto un insieme di “schizzi”, spesso abbozzati, che rivelano le manchevolezze del cattivo disegnatore.
Dall’altra, riconosce i gravi errori che ha commesso nel Tractatus. Il Wittgenstein trentenne era convinto di aver trovato l’essenza della proposizione, e del linguaggio, ma si era sbagliato (e di brutto).
Nella prefazione delle Ricerche, allora, ringrazia Frank Ramsey e Piero Sraffa per la critica — “sempre rigorosa e sicura” — alle sue idee. Segno che sì, persino i grandi pensatori hanno bisogno di uno o due critique partner per non fare brutte figure.
Le ultime righe sono una ferita aperta sulla disillusione e sulle aspettative del filosofo, che non reputa più possibile migliorare quanto aveva già prodotto.
“Che a questo lavoro, nella sua pochezza, e nell’oscurità del tempo presente, sia dato di gettar luce in questo o in quel cervello, non è impossibile; ma che ciò avvenga non è certamente probabile. Non vorrei, con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare. Ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé. Avrei preferito produrre un buon libro. Non è andata così; ma è ormai passato il tempo in cui avrei potuto renderlo migliore.”
Ma prima di Max Brod, l’esecutore testamentario di Kafka, e di Elizabeth Anscombe e Rush Rhees, gli allievi di Wittgenstein, c’è stato il più famoso Lord Byron, che ha persuaso l’amico Samuel Taylor Coleridge a pubblicare il Kubla Khan diciannove anni dopo la stesura originale. Il poemetto, in cinquantaquattro versi, esce nel 1816 accanto a Christabel e The Pains of Sleep per l’editore John Murray.
Anche il Kubla Khan ha una prefazione, ovviamente, nella quale l’autore che parla sembra afflitto dallo stesso scetticismo creativo di Wittgenstein:
“Il frammento che segue viene qui pubblicato su richiesta di un poeta di grande e meritata fama e, per quanto ne sappia l’autore, più come curiosità psicologica che per qualsivoglia merito poetico.”
A questa ammissione, segue il racconto della genesi dell’opera, composta in una sorta di rêverie poetica causata da due grani d’oppio nell’estate (o era autunno? Samuel stesso non lo saprebbe dire) del 1797.
Purtroppo, l’afflato d’ispirazione divina viene interrotto da un uomo che “detiene” Coleridge per più di un’ora. L’autore, di nuovo libero, scrive soltanto altri otto o dieci versi sparpagliati. La visione del sogno sta già svanendo, troppo vaga e fioca per essere riportata sulla pagina con la stessa vividezza di prima.
“Ma a partire dai ricordi che ancora sopravvivono nella sua mente, l’autore si è spesso riproposto di terminare per sé ciò che gli era stato originariamente affidato. [Canterò una canzone più dolce, oggi]: ma il domani non è ancora giunto.”
È Salvador Dalí a proporre una soluzione (originalissima) al problema del fallimento, a riconoscerne l’importanza, e a correggere l’aberrazione da distorsione ottica di cui gli artisti sono vittime quando si trovano a giudicare le proprie creazioni.
A proposito del suo Corpus Hypercubus, il dipinto a cui stava lavorando nel 1953, racconta:
“Mi rendo conto dell’insuccesso tecnico di questo mese di settembre. Mentre mi riuscivano come non mai i drappeggi, in compenso, per un desiderio chimerico di perfezione assoluta, provavo a dipingere quasi senza colore delle superfici sature d’ambra. Volevo giungere all’assoluta maestria; al massimo di quintessenza della smaterializzazione. Il risultato è stato disastroso. […] Ma verso sera ho preso coscienza dell’origine originalissima dei miei errori. Assaporo questi errori. […] Ancora qualche istante gusto il mio peccato di assoluto.”
Perché, ecco qual è la sua verità: se tu dipingessi o scrivessi sempre bene, per tutta la vita, non saresti mai felice. Il fallimento è parte del processo, non la sua fine. E dato che la strada per l’assoluta maestria è lastricata di errori, meglio prepararsi.
Cosa ne pensi?