L’empireo dei grandi editor è uno spazio luminoso ma piccolo. Un po’ perché l’editing è un mestiere recente, un po’ perché la grandezza non si trova a buon mercato, un po’ perché alcune figure leggendarie camminano ancora in mezzo a noi — sì, mi riferisco a Gordon Lish.
Il successore del nostro infamous Flash Gordon, come editor di Raymond Carver, è Gary Fisketjon: ancora vivo, per adesso, e attualmente al soldo della Knopf, dopo un passato in Random House, dove nel 1984 ha creato la Vintage Contemporaries, la collana che ospita Cathedral, American Psycho e The Secret History.
In un’intervista del 2007 per Vice, Gary Fisketjon ha raccontato la sua filosofia dell’editing e i retroscena del lavoro editoriale. È giusto che un editor rinunci al proprio gusto personale? Che non abbia standard qualitativi? E a chi appartiene l’opera, comunque? L’editor riscrive o suggerisce soltanto?
Le lezioni più importanti, e che rispecchiano (quasi del tutto) la mia visione del mestiere, sono tre:
1. L’editing è riga per riga, o non è
“L’editing vero è un processo molto lento, e io preferisco di gran lunga il lavoro riga-per-riga che faccio rispetto all’editing concettuale, qualsiasi cosa sia, o alle chiacchiere sul testo. Quello che spero è di riuscire a riversare ogni mio pensiero, per quanto insignificante possa sembrare, sul manoscritto e lasciare che sia l’autore a decidere cosa fare. Se qualcuno non riesce a decifrare la mia scrittura o a capire dove voglio arrivare, sono più che felice di tradurre o spiegare; ma non mi interessa sapere quale decisione verrà presa alla fine, perché ho già detto quello che dovevo dire e il libro appartiene sempre ed esclusivamente a chi l’ha scritto.”
2. Ciò che serve è una nuova prospettiva sul testo
“Per quanto i vari stadi del processo di pubblicazione siano tutti interessanti, il mio preferito è l’editing: arrivare al DNA del libro leggendolo da vicino, rendersi conto di dove funziona bene e dove potrebbe essere migliorato, ma soprattutto capire cosa lo rende così buono. Con i miei commenti, quello che spero di fare è fornire all’autore una nuova prospettiva su qualcosa che ha rimaneggiato così tante volte da rendere invisibili certi elementi. Le decisioni che influenzano la scrittura di ogni libro sono innumerevoli, e sarebbe una sfida alle leggi della matematica se ciascuna fosse sempre la scelta migliore; ma dopo che hai riscritto frasi e capitoli Dio solo sa quante volte, è difficile mantenere una certa freschezza nello sguardo, per cui se sei fortunato un editor può aiutarti a ritrovarla.”
3. La prima lettura è la più importante
“L’editing migliore viene fatto nello stesso modo in cui un lettore legge – alla cieca, senza sapere cosa succederà o come. Ma ovviamente capita di rado, visto che devi aver letto un libro per sapere se vuoi comprarlo o meno. Nel caso di autori affermati, i cui libri sono stati acquistati prima ancora di essere scritti, questo sistema può funzionare. Altrimenti, il segreto è cancellare dalla memoria il fatto di averlo già letto, così da approcciarlo pagina per pagina, come farebbe un lettore normale.”
Tutto perfetto, quindi? Non proprio. L’editing è una faccenda molto personale, e i giudizi sullo stesso editor possono cambiare da scrittore a scrittore. Invero, sarebbe strano se fosse il contrario.
In The Art of Fiction No. 216, del The Paris Review, Bret Easton Ellis racconta com’è stato lavorare con Fisketjon:
“Io e Gary abbiamo uno strano rapporto. È mio amico, ed è il mio editor. Ma, a eccezione di Lunar Park, non penso che i miei libri gli piacciano davvero. Siamo quasi arrivati alle mani anche per Imperial Bedrooms. […] Nella bozza c’erano un paio di dettagli che ha trovato disgustosi, ancora più disgustosi di quelli che sono rimasti. Era irremovibile sul fatto di toglierli, così mi sono arreso. Li ho tagliati, e ancora mi brucia.”
Eppure, nonostante i tagli e i cambiamenti, Ellis lo stima e apprezza la sua abnegazione.
“Forse i miei libri non gli piacciono, ma lui rappresenta il sogno di ogni scrittore, avere l’attenzione totale di qualcuno sul tuo libro. Dal momento in cui il manoscritto è nelle sue mani, fino a quando viene pubblicato in versione tascabile, lui supervisiona ogni cosa. Molti editor a malapena leggono il libro una volta, e via, «fantastico!», e scaricano la patata bollente al revisore. A essere sincero, anche Gary potrebbe fare così con me, perché la maggior parte delle cose che dice non le prendo nemmeno in considerazione, e credo si accanisca troppo sulla sintassi e sulla grammatica.”
Insomma, probabilmente aveva ragione Simone Weil quando diceva che l’attenzione è la più rara e pura forma di generosità. Almeno per l’editing, l’affermazione tiene.
E non si tratta di cambiare i libri, alla fine, o di renderli più simili alla propria idea di letteratura, ma certo è che, volenti o nolenti, questa condiziona comunque il lavoro, la metodologia, il rapporto stesso con gli autori. E come potrebbe essere altrimenti?
Fisketjon dice che “gli editor non dovrebbero avere una serie di regole, antipatie, preferenze, eccetera, e invece dovrebbero lasciare che sia l’autore con cui sono impegnati a decidere qual è lo standard, e poi far notare quando quello standard non viene raggiunto”, ma la verità è che non si può abdicare del tutto alla propria soggettività, perché è la soggettività che informa il nostro modo di vedere il testo, e di correggerlo. Bret Easton Ellis mi è testimone, in questo.
La revisione perfetta non esiste, e non è nemmeno auspicabile. Esiste, invece, l’editor che corregge un manoscritto e già possiede una certa esperienza, certe conoscenze, predilezioni anche, e un più o meno variegato bagaglio di letture. In quale modo, e in quale universo, queste variabili non dovrebbero far parte del processo di editing? L’importante è ricordarselo, evitando di scadere nel dogmatismo di chi è troppo sicuro delle proprie credenze sulla scrittura e su come un buon libro dovrebbe essere fatto. Dietro l’angolo, ci sarà sempre qualcuno pronto a sorprenderci.
Cosa ne pensi?