“Serious modern fiction has only one subject: the difficulty of writing serious modern fiction.”
John Fowles, Mantissa
Mantissa è una delle mie parole preferite, al momento. Non è un nome proprio, ma potrebbe esserlo. Assomiglia a Clarissa, come la Clarissa Dalloway di Virginia Woolf o la Clarissa Vaughan di Michael Cunningham. Immagino un novello Henry Fielding alle prese col racconto della “vera” storia di Clarissa, che questa volta non sta organizzando una rispettabile festa per la buona società londinese.
Mantissa non è un nome proprio, ma la parte decimale, sempre positiva, di un logaritmo. (Per una spiegazione più dettagliata c’è la Treccani, o il libro di matematica del liceo.) La parola ha origini latine, forse mutuata dall’etrusco o dal celtico, e significa “aggiunta” – come lo è la parte decimale del logaritmo, appunto.
In inglese, anche se l’uso è obsoleto, indica i cambiamenti minimi che vengono fatti, per esempio, a un’opera letteraria. Un’aggiunta posticcia, un post-scriptum di poca importanza, insignificante se considerato da solo.
John Fowles, autore del più conosciuto “La donna del tenente francese”, nel 1982 scrive “Mantissa”, un dialogo tra uno scrittore e la musa Erato: un esperimento totale, una continuazione più estrema del giochetto meta-finzionale e del romanzo self-reflective postmoderno, un divertissement intellettuale forse poco capito (la scelta del titolo non è casuale, affatto), dato che è stata l’opera meno apprezzata dalla critica e dal pubblico. In Italia non viene ristampato dal lontano 1984.
Mantissa mi piace perché è una parola precisa, con la sua definizione matematica, che conserva però qualcosa di “romantico”: quel significato un po’ nascosto, la fascinazione per il sommerso, il dimenticato, il dimenticabile, soprattutto. I dettagli, le aggiunte, le note.
L’insignificante, per me, è vitale (non farei l’editor, altrimenti), e ha un valore grandissimo che molto spesso, però, non viene colto dagli scrittori. Spesso fatico a spiegare l’importanza della formattazione – gli spazi bianchi servono a “lasciar respirare” un testo, così come un “a capo” cambia la disposizione dei paragrafi e il loro significato – o della scelta lessicale – la forma di un romanzo, ovvero quali parole usiamo e come le organizziamo tra loro, non è disgiunta dal suo contenuto. Non esiste un bel romanzo che non sia anche ben scritto.
L’esattezza è l’ideale della scrittura: voler dire una cosa e volerla dire proprio in quel modo lì, ché anche una virgola in più, o in meno, cambierebbe il senso di tutto. Dire quasi la stessa cosa non è abbastanza.