“I am a searcher… I always was… and still am… searching for the missing piece.”
Louise Bourgeois
Per un periodo, quest’anno, ho considerato la possibilità di smettere di editare. Ci ho ripensato qualche settimana fa, e l’idea non mi ha abbandonata del tutto. Passo gran parte del mio tempo a correggere storie scritte da altri e mi chiedo se ne vale davvero la pena.
Ieri, poi, ho visto al cinema Genius, un film che racconta la storia di Max Perkins, l’editor che scoprì e pubblicò Hemingway, Fiztgerald e Wolfe per la casa editrice Scribner. Il genio del titolo è Thomas Wolfe, ma a suo modo anche Maxwell lo è, nonostante fosse troppo modesto per pensarlo.
Il regista è al suo esordio, e si vede. La pellicola è carina, modesta, e non suscita particolari entusiasmi. L’unico pregio, forse, è di aver scelto un protagonista (e un argomento) poco convenzionale e poco hollywoodiano. Maxwell (Colin Firth), dico, perché Thomas Wolfe (Jude Law), il co-protagonista, sembra uno scrittore posseduto dallo spirito di Jack Sparrow, e per di più con le stesse abitudini igieniche.
La parte più interessante, ma poco approfondita, è quando lo stesso Perkins riflette sulla natura del lavoro di editor. E l’esercizio del dubbio raggiunge l’apice quando si domanda: “Davvero miglioriamo questi libri o li rendiamo solo diversi?”, proprio dopo aver concluso un lavoro gigantesco di editing per Of Time and the River.
Nel lungo saggio biografico di Andrew Scott Berg a lui dedicato, Max Perkins, l’editor dei geni (Elliot), e da cui è tratto il film, si legge:
“L’editor non aggiunge niente al libro. Nel migliore dei casi è l’ancella di un autore. Non vi venga mai in mente di sentirvi importanti per quello che fate, perché un editor al massimo rilascia energia. Un editor non crea niente. Il lavoro migliore di uno scrittore viene totalmente da se stesso. Il procedimento è semplicissimo. Se avete un Mark Twain, non cercate di trasformarlo in uno Shakespeare o viceversa. Perché alla fine un editor può tirare fuori da un autore solo quello che l’autore ha già in sé”.
Non vi venga mai in mente di sentirvi importanti per quello che fate. Un editor non crea niente. Che sia vero? L’editor è sterile come pensa Perkins, novello Socrate letterario degli anni ’30 del Novecento?
Gordon Lish non ha dubbi, per fortuna sua, e nostra. Editor leggendario, noto a molti per aver “brutalizzato” le prime antologie di Raymond Carver (poi ripubblicate anche nella versione non corretta), al Paris Review dichiara:
“Carver’s were not the only ones I’d worked on to that extent. Not the only ones by a long shot. There were many. I’ve been decried for a heinous act. Was it that? Me, I think I made something enduring. For its being durable, and, in many instances, beautiful”.
Ma soprattutto:
“Had I not revised Carver, would he be paid the attention given him? Baloney! […] I can’t believe that what I had in my hands from Ray would have made its way into the hearts of those who have apparently been so undone by the work. Which work had been deformed, reformed, tampered with in every respect by, yeah, me. Contaminated, uncontaminated, that’s a discrete consideration. But readers were seduced, and, I’m sorry, but it was my intervention that seduced them”.
A chi dobbiamo credere? L’editor è un’ostetrica che aiuta lo scrittore a “partorire” l’opera, oppure un artista delle parole, un co-autore, anche se demolisce, sistema, riordina, migliora quelle che non ha prodotto da solo?