“A road open as you travel along. A road that doesn’t open isn’t a road. Roads are open to everyone. But not everyone can have the roads. My road ended there. It’s not because I lacked skills or luck. Or because I had the part-time job on the side. Or because my parents couldn’t support me. Or because my mom became bedridden after my father passed away. That would be too painful. So I want to think I didn’t work hard enough. I want to think that way even it isn’t true. I ended up here because I didn’t work hard. I was abandoned because I didn’t work hard.”
Jang Geu-Rae, in Misaeng
Quando mi chiedono qual è il mio drama coreano preferito, rispondo automaticamente Misaeng (2014), una storia che rappresenta la vita, le speranze e le difficoltà degli impiegati (salaryman, come quelli giapponesi) di una trading company di Seoul.
Il protagonista è Jang Geu-Rae, un ragazzo povero, precario e senza particolare talento. Non è riuscito a diventare un giocatore di Go professionista e ora affronta l’incerto, crudele mondo del lavoro con solo un diploma e una certificazione informatica. Grazie a una vecchia conoscenza della madre, diventa uno stagista alla One International, ma l’internship ha una data di scadenza e senza una laurea adeguata è poco probabile che venga assunto, a differenza dei colleghi super qualificati.
Interrogato dal suo capo, il signor Oh, che gli chiede di convincerlo a farlo rimanere nel suo gruppo (“Sell yourself to me, or I might return you”), Geu-Rae risponde che la sua qualità migliore è l’impegno: non avendolo ancora usato, è nuovissimo, aggiunge.
E gli sforzi di Jang Geu-Rae sono diversi sul serio, e non solo per la quantità ma per la qualità. Lavora tanto, più degli altri, svolgendo perfettamente le proprie mansioni, come se dovesse sopperire a una mancanza costitutiva, a un’istruzione che non c’è stata, a mezzi che non possiede, a possibilità che gli sono negate. Nel primo episodio, per esempio, è l’unico che continua a cercare, al freddo e senza protezione, un piccolo polpo tra migliaia di calamari. Ci riesce, ma sacrifica un telefono e il completo costoso che la madre ha acquistato con i loro risparmi. Ho pianto, vi dico.
Misaeng non racconta la storia edificante di un ragazzo che s’impegna e ce la fa. Al contrario, svela e disinnesca alcune contraddizioni della cultura coreana, come la poca mobilità sociale, le discriminazioni di genere, l’importanza delle connessioni e delle raccomandazioni, la chimera dell’accettazione sociale.
Misaeng ci mostra, non ce lo suggerisce soltanto, che l’impegno, a volte, non è sufficiente. Che la qualità, però, è necessaria. Che bisogna passare attraverso i fallimenti. Che ci sono strade alternative. Che il lieto fine esiste, ma non è garantito. Bittersweet, isn’t it?