“No poet, no artist of any art, has his complete meaning alone. His significance, his appreciation is the appreciation of his relation to the dead poets and artists.”
T.S. Eliot, Tradition and Individual Talent
Quando pensiamo al genio – alla grandezza, all’originalità, pure – pensiamo a un individuo preso nella sua singolarità. Un individuo che, nella solitudine della propria stanzetta in affitto (perché di solito è troppo povero per permettersi altro), crea capolavori e meraviglie. Non senza alcuno sforzo, però, altrimenti sarebbe difficile spiegare le tonnellate di alcol, droga e infelicità che sono andate consumandosi nel frattempo.
Oggi, forse, ci siamo liberati del mito del poète maudit, ma non di certi strascichi da romanticismo ottocentesco. Abbiamo bisogno di certezze, dunque vogliamo che il genio sia individuale; che un’opera appartenga tutta a una persona soltanto; che non ci siano ambiguità o sbavature nell’attribuzione. E quanto sarebbe più comodo se esistesse un test di paternità (o maternità) per i libri, e quanto sarebbe più semplice il ruolo di accademici, critici e lettori! E degli autori stessi, non più costretti a dimostrare che quello che si è pubblicato è davvero farina di un solo sacco; il loro.
Nella notte tra il 29 e il 30 giugno del 1834, Alfred de Vigny, scrittore, poeta e drammaturgo francese un po’ sfigato, a giudicare dalla ricezione in Italia, abbozza Dernière nuit de travail, la prefazione alla sua pièce dedicata a Thomas Chatterton, l’emblema del giovane poeta geniale ma triste e misconosciuto, che proprio per il mancato riconoscimento della società decide di togliersi la vita alla veneranda età di diciassette anni.
In quell’ultima e fervente notte di lavoro, Vigny scrive una riflessione sul “letterato”, e il suo ruolo, e ne distingue di tre tipi: il primo, socievole e abile nelle cose della vita, è sprovvisto d’ispirazione e di emozioni reali; il secondo è le grand écrivain, un uomo che corrisponde all’ideale settecentesco dell’uomo di lettere: filosofo, pieno di virtù e engagé; il terzo, invece, è il vero poeta, di una natura più pura, rara e appassionata. Una natura divina, che proprio per questo non può essere razionale e ragionevole, e che condanna il poeta a una vita da disadattato, un peso per gli altri e per se stesso. La sua sensibilità esacerbata lo rende infelice; l’intelligenza e la “visione” sopraelevata gli impediscono di costruire rapporti genuini con gli altri esseri umani.
La riconosci? È l’immagine del poeta romantico per eccellenza, colui che comprende tutto e tutto troppo profondamente. E quale scrittore, dico, già comunque infelice di suo, non corteggerebbe l’idea di far parte dell’esclusivo Club dei Geni Incompresi (un po’ come The League of Extraordinary Gentlemen)?
Se lo scrittore è un tale genio incompreso, dunque, non ha bisogno di editing. Quando si parla dell’argomento, infatti, i detrattori chiedono: ma Dante Alighieri aveva l’editor? Jane Austen? William Shakespeare? L’editing non serve, e lo dimostrano i fatti: i grandi scrittori del passato erano, e sono stati, tali anche senza aiuto esterno. Che sia vero? È tutta qui la storia che abbiamo da raccontarci?
Shakespeare, è vero, non aveva un editor. Non uno solo, almeno, e non uno che facesse questo mestiere di professione, perché all’epoca la figura dell’editor non esisteva come l’intendiamo oggi. Ma Shakespeare aveva qualcosa di meglio di un redattore al soldo di una casa editrice: aveva i suoi colleghi di teatro e altri drammaturghi con cui scrivere le opere, tant’è che il bardo non è certo l’unico autore del canone shakespeariano. Persino Coleridge – sì, quello della Ballata del vecchio marinaio e del Kubla Khan – parla di un “myriad-minded Shakespeare” facendo notare le contraddizioni interne alle sue opere, soprattutto in materia religiosa.
E anche Jane Austen, più nolente che volente, è stata corretta da uno zelante “editor”, tale William Gifford, lo stesso che ha “punteggiato” correttamente le poesie di Byron.
Insomma, la verità è che le opere che leggiamo non hanno la stessa forma – talvolta nemmeno il contenuto – di quando sono state scritte. Ci sono scrittori che riscrivono quaranta volte i finali, scrittori che hanno bisogno di idee, scrittori che sbagliano la punteggiatura, o che non la conoscono affatto, scrittori che necessitano di una spuntatina o di un taglio netto. Ma di scrittori che hanno vissuto in una camera anecoica per evitare influenze e ingerenze e contaminazioni ancora non ne ho conosciuti.
Quando si parla di tagli indiscriminati e sodalizi letterari andati (a) male, non si possono non nominare Raymond Carver e Gordon Lish. Il primo è entrato subito, dopo la prematura scomparsa, nell’empireo dei grandi scrittori di racconti; il secondo, nonostante la cattiva reputazione, è diventato il più celebre editor americano dopo Maxwell E. Perkins.
Un dettaglio che viene spesso tralasciato dalla narrazione mainstream, però, è che lo stesso Carver ha lavorato come editor di tre riviste letterarie, tra cui la Toyon dell’Humboldt State College in California, e come textbook editor (e direttore delle pubbliche relazioni) per la Science Research Associates a Palo Alto.
In Conversations with Raymond Carver, inedito in Italia, possiamo leggere la trascrizione di una conferenza che Raymond Carver ha tenuto all’università di Akron, nel 1982. È qui che lo scrittore, reso celebre anche dalla querelle sull’editing della raccolta Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, confessa che non riesce a leggere alcuna storia, che sia di uno studente o di un amico, senza una matita in mano. “I assume that when someone says to me, read this, and it’s in manuscript form, that they’re asking me to make it better, to make some suggestions if I can”, aggiunge. Raymond Carver nelle vesti di editor, e non di scrittore sedotto, tagliato e abbandonato, ci mancava.
La “conversazione” (le virgolette sono d’obbligo, dato che le domande degli studenti sono state omesse) prosegue e Carver attraversa la figura di Perkins per parlare, invece, della collaborazione tra scrittori: Fitzgerald che convince Hemingway a far fuori il primo, ora perduto, capitolo di The Sun Also Rises; Ezra Pound che aiuta il più giovane T.S. Eliot a dare forma al suo The Waste Land con un line editing che, allora come oggi, nelle case editrici spesso ci si sogna; l’amico, senza nome, che una volta a settimana va a trovare Gustave Flaubert e gli dice “questo va tolto, questo va cambiato, questo va sistemato”, sulla bozza di Madame Bovary.
La conclusione a cui giunge Raymond Carver è inaspettata:
“So take advice, if it’s someone you trust, take any advice you can get. Make use of it. This is a farfetched analogy, but it’s in a way like building a fantastic cathedral. The main thing is to get the work of art together. You don’t know who built those cathedrals, but they’re there. Ezra Pound said: “It’s immensely important that great poems be written, but makes not a jot of difference who writes them”. That’s it. That’s it exactly.”
È di immensa importanza che i grandi poemi vengano scritti, ma non fa alcuna differenza chi sia a scriverli.
È così. È proprio così.
Cosa ne pensi?