“Non è forse vero che le nostre vite sono troppo brevi per arrivare a quell’espressione totale che durante tutti i nostri balbettamenti era sempre stata la nostra intenzione più profonda e più vera?”
Joseph Conrad, Lord Jim
On échoue toujour à parler de ce qu’on aime, ovvero “ci si arena sempre nel parlare di ciò che si ama” o “non si riesce mai a parlare di ciò che si ama” (nella traduzione Mimesis) — è l’ultimo testo di Roland Barthes, dedicato a Stendhal e al suo rapporto con l’Italia.
Che ci si areni nel parlare di ciò che si ama è vero per Stendhal, che nel suo diario di viaggio “dice” il suo amore per l’Italia, ma non riesce a raffigurarlo, a raccontarlo (non a caso le sue parole di meraviglia e di affetto sono vaghe, generiche, dei “fantasmi”), come invece è possibile fare soltanto attraverso l’intercessione del romanzo. Ma è vero anche per me (e non penso di essere sola, in questo), che riesco a scrivere dieci pagine su un manoscritto che non mi è piaciuto affatto, ma a fatica arrivo alla fine della prima, per un libro che mi è piaciuto moltissimo.
È davvero difficile spiegare l’effetto di un bel testo letterario (perché “risuona” a livello soggettivo e perché funziona rispetto al canone), e allora per evitare “balbettamenti” mi concentro su ritagli e dettagli. Che sono circoscritti, maneggiabili, e per fortuna poco propensi a sfuggire dalle dita quando li si trasferisce in un testo (non narrativo). L’iper-specializzazione, insomma, mi toglie dall’imbarazzo.
L’estate scorsa ho letto per la prima volta La donna del tenente francese, in inglese perché l’edizione Mondadori è fuori pubblicazione (shame, shame). L’ho riletto altre tre o quattro volte, nel corso dell’anno, e a ogni rilettura mi sembrava migliore, di una bellezza che si dispiega lentamente, che non ha fretta di farsi ammirare subito.
È bello, completo (a una cara amica, che per puro caso scrive anche, ho intimato: “Leggilo, dentro c’è tutto”), stratificato, ironico, intelligente senza essere polverosamente erudito. John Fowles ha creato una protagonista femminile che, non a caso, ho paragonato a Jane Eyre, e non solo per le circostanze esteriori che le accomunano (istruzione e lavoro: sono entrambe giovani istitutrici). Ma Sarah Woodruff è molto più della Jane bröntiana, è la sua evoluzione moderna, dato che non ci sarebbe niente di pregevole nel copiare un’eroina del secolo precedente.
E poi c’è John Fowles, che attraverso un narratore selettivamente onnisciente si prende gioco del lettore — di noi —, lo giudica, lo sfida ma, allo stesso tempo, gli consegna le chiavi della libertà, proprio nel cuore della finzione.
“Ho scandalosamente distrutto l’illusione? No. I miei personaggi continuano a esistere, e in una realtà che non è meno, o più reale, di quella che ho appena distrutto. […] Dite che questo è assurdo? Che un personaggio o è “reale” o “immaginario”? Se tu la pensi così, “hypocrite lecteur”, posso soltanto ridere. Tu non consideri del tutto reale neanche il tuo passato; lo agghindi, lo indori, lo diffami, lo censuri, lo rattoppi… in una parola lo romanzi e lo metti su uno scaffale, è il tuo libro, la tua autobiografia romanzata. Tutti noi non facciamo che sfuggire alla realtà reale. È questa una definizione fondamentale dell’homo sapiens.”
Dentro il romanzo i personaggi stessi, come i lettori, sono liberi: Fowles cerca di imbrigliarli, di cambiarli, di guidarli, ma ora hanno volontà propria, seguono i propri desideri, le proprie pulsioni, le proprie paure, le proprie credenze, come se il principio d’autorità dell’autore fosse crollato di fronte alla dichiarazione d’indipendenza delle sue creature.
L’autore è preso tra due fuochi: i personaggi che si ribellano, da una parte; i lettori che interpretano a piacimento, dall’altra. E il cambiamento è storico, con il postmodernismo, anche se La donna del tenente francese, pubblicato nel 1969, è un tipo particolare di romanzo postmoderno. Un po’ come Il nome della rosa di Umberto Eco.
Comme l’on serait savant si l’on connaissait bien seulement cinq à six livres,* ovvero “come saremmo saggi se conoscessimo bene soltanto cinque o sei libri”, scrisse Gustave Flaubert all’amante Louise Colet nel 1853. L’autore di Madame Bovary arriva a questa conclusione dopo aver ripreso la lettura dei Moralia di Plutarco, “una miniera di pensieri inesauribili”. Io dopo aver (ri)letto John Fowles, ovviamente.
* La frase è citata anche all’inizio delle Lezioni di letteratura di Nabokov, nel saggio Good Readers and Good Writers. L’edizione originale dell’epistolario di Flaubert è Correspondance: Nouvelle édition augmentée.
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