“What do we know about people really? I thought. What the hell do we know about anyone?”
Siri Hustvedt, The summer without men
Il silenzio è più puro della parola, e non a caso è proprio nel silenzio che si consuma l’esperienza di lettura.
Marcel Proust la definisce “un’amicizia priva di egoismo” — sincera proprio perché destinata a un morto, o a un assente, dice, e quindi disinteressata — che ci permette di compiacerci “dei tratti di ciascuno senza bisogno che siano mirabili, perché è un enorme piacere per la mente scorgere quelle pitture profonde […] Tra il pensiero dell’autore e il nostro non frappone gli elementi irriducibili e refrattari al pensiero dei nostri differenti egoismi”.
A Proust — poco convinto dalla ripresa dell’ormai logora metafora della conversazione, esposta da Ruskin in Sesamo e Gigli — interessa preservare la dimensione asociale della lettura e l’esigenza psicologica connessa, ovvero la solitudine.
Quando leggiamo, ci ritiriamo dal mondo per entrare nel non-luogo del pensiero. Leggere significa uscire fuori dal tempo e dall’ordine: interrompe tutte le attività ordinarie e ne è a sua volta (spiacevolmente) interrotto.
Amicizia e asocialità, però, sembrano incompatibili, due rette parallele destinate a non incontrarsi mai, se non in qualche lontano universo non euclideo, ma lo scrittore francese fornisce una soluzione all’enigma:
“Ciò che differenzia essenzialmente un libro da un amico non è la maggiore o minore saggezza, ma il modo in cui comunichiamo con loro: la lettura infatti consiste per ciascuno di noi nel venire a conoscenza del pensiero di un altro senza smettere di essere soli, vale a dire continuando a godere del vigore intellettuale che si ha in solitudine, e che la conversazione dissolve immediatamente, continuando a restare ispirati, in pieno lavorio fecondo della mente su se stessa.”
David Foster Wallace è interessato (o meglio, ossessionato) da un tipo di solitudine più essenziale: la solitudine esistenziale. Siamo soli, tremendamente soli perché abbiamo un’idea chiara e distinta soltanto della nostra esistenza: non possiamo “saltare” da una testa all’altra per convincerci che anche gli altri esistono come esistiamo noi.
I confini della nostra scatola cranica, e del nostro pensiero, dunque, sono i confini del nostro mondo.
“Io non so cosa stai pensando o cosa si prova a stare dentro la tua testa, e tu non sai cosa si prova a stare dentro la mia. Nella letteratura penso che in un certo senso riusciamo a saltare oltre questo muro.”
La letteratura non è più ciò che ci consente di rifugiarci nel mondo del pensiero, a chiacchierare non visti e senza vedere il nostro interlocutore, la cui saggezza è soltanto l’inizio della nostra, ma un antidoto contro la solitudine.
Le parole affrontano, sfidano e, infine, leniscono (ma non cancellano) quella solitudine che ci appartiene in quanto esseri umani. Leggere ci fa sentire meno soli dentro, anche se lo siamo “al di fuori”, soprattutto se condividiamo la stessa misantropia di Proust.
“Ci sono parecchi libri che dopo averli letti mi hanno lasciato per sempre diverso da com’ero prima, e penso che tutta la buona letteratura affronti il problema della solitudine e agisca come suo lenitivo. Siamo tutti tremendamente, tremendamente soli. Ma c’è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti permette di entrare in intimità con il mondo, e con un’altra mente, e con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo nel mondo reale.”
Un romanzo, allora, ci permette di esperire, all’interno di uno spazio immaginativo, ciò che ci è precluso nella vita reale: la coscienza dell’altro. In che modo, altrimenti, potremmo diventare e capire, per esempio, “un vedovo di razza bianca” di nome Humbert Humbert, anche se non abbiamo la stessa predilezione per le dodicenni (o una dodicenne in particolare)?
* I libri di cui ho parlato oggi sono “Il piacere della lettura”, di Marcel Proust (Feltrinelli), e “Un antidoto contro la solitudine”, di David Foster Wallace (minimum fax). Consiglio caldamente la lettura di entrambi, ma soprattutto del secondo.
Questo si ricollega un po’ anche all’idea della telepatia di Stephen King, no? Mi chiedo spesso perché i dialoghi reali, alle volte, non abbiano lo stesso impatto. Forse la maggior parte delle nostre parole parlate restano in superficie, mentre le parole studiate e cercate hanno il potere di toccare e interrogare il nucleo dei nostri pensieri.
Se ho ben capito Wallace sostiene che i libri siano un antidoto contro la solitudine, proprio perché mentre leggiamo lo siamo. In effetti, non ci avevo mai pensato: siamo soli ma per finta.